Franco Pedrina

Roberto Sanesi

Il colore e la luce, mezzo e risoluzione. E sempre, con insistenza, un rimando preciso, oggettuale, denso di suggestioni di memoria e stupefazione insieme, a un’arcaicità solare del paesaggio e dello spirito. Le citazioni, scorrendo la letteratura critica dedicata a Franco Pedrina da dieci anni a questa parte, possono essere molte e pertinenti,  testimoniare un percorso lineare, senza strappi, limpido, di segreta modestia. Valsecchi: «pagine di pittura, tra l’astratto di un’idea pittorica e il concreto dei fenomeni di natura». Bruno: «la radice corrosa, i giardini, le vigne, conservano l’immediatezza del primo stupore». Tassi: «L’opera era il racconto, quasi sillabato, di una emozione, ora e un organismo totale». Vi si riconoscono i passaggi, determinanti, e sempre più definiti, in profondità, verso una sintesi d’immagini oscillanti fra l’intuizione di un malessere e il desiderio di una partecipazione assoluta, abbandonata, e tuttavia non passiva, con soprassalti di turbamento, di serpeggianti sottili timori. La ferita, l’ossificazione, la drammatica scheggiatura, la vigorosa solitudine dei ceppi, per i quali la pittura si insecchisce, e la materia non lascia sulla tela che aridi fantasmi, tracce appena accennate, non tanto per affermare una perdita d’oggetto (che è anche metafora, sia pure non ricercata) quanto per accentuarne un isolamento. Ceppi-paesaggi, nei quali la forma artigliante assume ruolo di sintesi emblematica, nei quali è il reperto, reso autonomo, a porsi quale indizio di una sfacimento ancora orgoglioso. Lettura “letteraria”, con sospetto d’artificio, di forzatura a un senso. Non fosse poi che l’assonanza trova conferma anche nell’indagine più squisitamente tecnica: privilegio dell’oggetto nei confronti di un contesto che si sente essere di natura ma che non è dato se non per scarno riflesso, disposizione frontale e talvolta aggettante del tronco o del ceppo, colore secco e sobrio con lievi accentuazioni “espressionistiche”, più “improbabile” che teso a mimare modelli naturalistici. Tanto che in questi casi il ricorso, altrove perfino ovvio, a una tradizione coloristica veneta risulta insostenibile. E la riprova, infatti, la si ha sul côté più abbandonato e lirico del lavoro di Pedrina, per il quale si impone una lettura di segno opposto, emergendo calura, silenzio, una smemoratezza estiva tutta percorsa - e certo il richiamo dionisiaco è inconsapevole, non più che un alone - da reminescenze di «colui che viene con volto che ride», o di quelle per le quali «il dio lascia sgorgare sorgenti di vino». Le vigne, soprattutto, che lasciano trasparire un’assorta solarità,  e fra viluppi e frastagliamenti tentano una fusione totale con la luce. In queste opere, fra le più convincenti di Pedrina, il colore s’accende, il segno s’innervosisce, e vi si libera una gestualità panica, lontana dall’esercizio calligrafico quanto dalle tentazioni degli impasti informali. Lo spazio ne è invaso diversamente. Il «racconto» ipotizzato da Tassi procede a rilevare il senso del versante opposto del dramma; opposto, ma interagente, e necessario. Se il ceppo si adagiava su un piano, e pensava, la vigna è una trama di riflessi, si innalza a tetto, a cielo, si dispone a sommergere, ad abbracciare.
Chi osserva si trova costantemente all’interno, rivolge lo sguardo al vertice di una cupola. Lo spazio, sensibilizzato, assume una svariante plasticità, rifrange un’intensità emotiva autentica. Senza cedimenti stilistici.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Montrasio, Monza, marzo 1978)

 

 

 


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